Fa discutere la slide del Rapporto Coop sul ‘lento tramonto’ dell’Idm. Un attacco diretto che ha provocato una serie di reazioni. Come stanno davvero le cose?
Di Federico Robbe
‘Il lento tramonto della marca industriale’: questo il titolo di una slide mostrata agli operatori del settore durante la presentazione del Rapporto Coop 2021, in scena il 7 settembre a Milano. Il rapporto è uno strumento dettagliato e prezioso, ogni anno fotografa i consumi degli italiani e fornisce spunti di riflessione per nulla banali. Con una copertura mediatica ampia e assolutamente meritata.
Proprio per questa autorevolezza conquistata nel corso degli anni, la slide ‘incriminata’ ha fatto parecchio rumore: un attacco diretto all’industria di marca che ha suscitato un vespaio tra le aziende di ogni ordine e grado. Soprattutto tra i grandi brand. Più nel dettaglio, si legge nel rapporto, dal 2003 al 2021 la Marca del distributore è cresciuta del +9%, passando da una media del 12% al 21%. I leader (primi brand per categoria) perdono invece il 9% nell’arco di tempo considerato, mentre i follower (dal secondo al quarto brand) cedono il 3%. Va meglio per le altre marche (i piccoli e medi), con un +3%.
Ma è davvero il caso di parlare di ‘lento tramonto’? Una definizione del genere appare una forzatura per una serie di motivi. Intanto il periodo considerato è fin troppo ampio. Sarebbe stato più sensato considerare l’ultimo decennio. E poi che la Mdd sia in costante crescita in Italia, non è certo una novità. Così come non è una novità che il nostro Paese sia in forte ritardo rispetto ad altri Stati: in Germania e in Inghilterra la private label si attesta al 45%, mentre in Spagna supera il 50%. Teniamo poi conto che il dato italiano è una media: Coop e Conad sono al 30%, ma altre catene hanno quote decisamente inferiori, attorno al 10-15%. Il che significa, se la matematica non è un’opinione, che la marca industriale vale ancora in media l’80% dei prodotti a scaffale. Difficile definirlo un settore al tramonto.
Non va poi dimenticata la capacità di fidelizzare i consumatori, propria delle grandi marche. Il più delle volte, sono i big che creano spazio a scaffale anche per i medio-piccoli e per i prodotti private label. Con le catene spesso a caccia dell’ultima innovazione sul mercato per trasformarla in proposte a marchio del distributore. Nei punti vendita e nei siti dedicati alla spesa online delle catene, però, spesso lo spazio predominante è a favore della Mdd. E se il consumatore non trova i prodotti di marca, cosa fa? Acquista quelli in private label, naturalmente. A tutto vantaggio dei retailer. Il declino della marca (vero o presunto) va inserito in questo contesto, notano diversi operatori.
Un’altra domanda che circola insistentemente è la seguente: perché è stata inserita una slide così ‘velenosa’ senza entrare nel merito di come stanno andando le vendite in Coop? Qual è oggi la sua quota di mercato? In un rapporto encomiabile sotto tanti punti di vista, aggiungere qualche numero e qualche dettaglio in più sulla vicenda non avrebbe guastato.
E sempre per fare le pulci al rapporto, colpisce una delle prime slide: ‘La rivoluzione verde spinge i prezzi delle materie prime’. Dove si evidenzia la crescita impressionante di petrolio (+211% a maggio 2021 vs maggio 2020), stagno (+133%), litio (+130%) e altri. Con effetti dirompenti sui costi degli imballaggi e sulla logistica. Costi che da qualcuno devono essere sostenuti, e questo qualcuno non può essere sempre e solo l’industria. Anche la distribuzione deve fare la sua parte, senza ergere un muro contro muro sui listini e senza tirare in ballo lo spettro degli aumenti di prezzo scaricati sul consumatore finale.
Infine, se vogliamo dirla tutta, va bene citare il successo dei Maneskin, va benissimo esaltare i trionfi sportivi di quest’estate, ma una realtà mutualistica e attenta al sociale come Coop poteva dedicare qualche riga anche alle Paralimpiadi di Tokyo, no?