Il parlamento francese valuta l’obbligo di vendere il 20% dei prodotti senza imballaggio in grande distribuzione. Sostenuto dagli ambientalisti, criticato da industria e distribuzione. Ma qual è la strada migliore?

Di Irene Galimberti

In Francia, distribuzione e industria sono in agitazione. L’elemento di disturbo, spiega il quotidiano Le Monde, è l’Art. 11 della proposta di legge ‘Climat et résilience’, ossia ‘Clima e resilienza’.

Il testo, attualmente in discussione al parlamento francese, è stato avanzato da Barbara Pompili, ministro della Transizione ecologica. In particolare, il contestato Articolo, la cui disposizione entrerebbe in vigore nel 2030, imporrebbe ai negozi di oltre 400 metri quadrati di offrire “almeno il 20% di prodotti […] presentati senza imballaggio primario” e quindi in forma sfusa.

Una decisione che solleva questioni valide in tutto il mondo e che ha creato due opposti schieramenti. Da una parte gli ambientalisti, dall’altra industria e distribuzione.

Le insegne temono il caos nei punti vendita e denunciano, come spesso avviene, il diverso trattamento riservato ai rivenditori e-commerce, che non saranno soggetti a queste imposizioni.

I produttori, dal canto loro, hanno paura delle conseguenze negative sui brand. Infatti, nomi e loghi sono ben visibili sui pack studiati dalle aziende, mentre non lo sono altrettanto nella distribuzione degli sfusi. Eclatante il caso dei cosmetici, i cui contenitori, in media, hanno superfici coperte al 70% da brand e loghi, mentre nelle postazioni di ricarica questa percentuale si riduce al 5%. Non solo, dunque, il cambiamento richiederebbe un ripensamento delle tattiche di marketing e promozione, ma per il settore beauty ci sono anche problematiche più spesse.

Patrick O’Quin, presidente di Febea (federazione delle imprese della bellezza), ha reclamato: “Non possiamo vendere creme per il viso come fossero lenticchie”. Il comparto, infatti, è soggetto a norme europee che richiedono si garantisca l’integrità dei prodotti, escludendo i rischi batteriologici.

Si tratta del Regolamento Ue 1223/2009 (e successivi aggiornamenti), che impone le ‘Buone pratiche di fabbricazione’: con il rispetto di severe e precise regole per la fabbricazione (Gmp) di carattere igienico/sanitario. Regole che un negozio aperto al pubblico difficilmente è in grado di rispettare. Inoltre, il documento richiede l’indicazione, in etichetta, di una figura fisica o giuridica che sia “Responsabile” dell’immissione in commercio e di un documento chiamato Pif (dossier tecnico con la Valutazione della sicurezza del prodotto) in possesso del produttore e non a disposizione del commerciante.

Ancora più delicata la questione legata a etichette e tracciatura. Per quanto possa essere scrupolosa la pulizia del flacone, il rischio di inquinare il prodotto o di mescolare due lotti diversi (anche riportandone il numero su ogni flacone ricaricato) resta alto. Rendendo impossibile l’identificazione del prodotto e creando difficoltà al rivenditore in caso di problematiche. Il regolamento dunque non vieta la vendita dei cosmetici sfusi, ma ne rende la fattibilità davvero difficile. Vero è che, oggi, qualche evoluto sistema di spillatura brevettato in grado di garantire il rispetto delle norme esiste.

Tornando alla Francia, anche Afise, associazione francese industrie detergenza, elenca “le difficoltà pratiche” dell’Art. 11 e i “vincoli significativi” che graveranno sui “negozi ad alto traffico”: informazioni ai consumatori, rischio di furto, sporcizia. E verrebbe anche da aggiungere problemi di igiene e assembramenti, condizioni che renderebbero questa soluzione, almeno oggi in piena emergenza sanitaria, decisamente anacronistica.

Ma perché lo sfuso piace tanto agli ambientalisti? Il tema centrale è il risparmio della plastica utilizzata per l’imballaggio. Ma questo sussiste solo nel momento in cui davvero i consumatori si abituano a riutilizzare più e più volte, correttamente, i flaconi. Inoltre, troppo spesso ci si dimentica che l’impatto ambientale va calcolato su tutto il ciclo di vita. L’imballaggio non è l’unico dato da tenere in considerazione. Per questo andrebbe realizzata, come aveva fatto anni fa Assocasa, l’analisi del Life Cycle Assessment (Lca), per confrontare – in toto e con valori oggettivi – i pro e i contro della distribuzione di prodotti sfusi o in confezione.

E qual è dunque la strada migliore? Il dibattito è aperto.

 

In foto: una postazione di detersivi sfusi in un punto vendita Migros della Svizzera (leggi qui)